La nostra terra nelle opere di Paolo Toschi
(terza e quarta parte)
Le ricerche e le indagini dell’antropologo Paolo Toschi nel territorio di Badia Tedalda sono continuate per molti anni. Lo studioso si è soffermato spesso su semplici aspetti della vita rurale che assumevano per lui una rilevante importanza tanto da doverli annotare sulla carta. Il tempo e le nuove generazioni hanno trasformato molti di questi aspetti, ma non la capacità di aderire ad ogni attività lavorativa e alle prove difficili della vita, con coraggio e dignità. Doti che il trascorrere del tempo non ha offuscato e che oggi costituiscono le profonde radici di quanti vivono nel Badiale.
Il pagliaio
Un gruppo di giovani è all’opera per costruire un pagliaio. Toschi si ferma per osservarli. Il lavoro sembra apparentemente semplice, ma ben presto nota che in realtà richiede forza, abilità e capacità di lavorare in gruppo.
Sul ritmo ronzante e monotono della trebbiatrice, alcuni giovinotti, armati di forcale a tre punte, radunano la paglia1 ammucchiandola attorno alla battitrice, poi la trascinano verso un palo di legno, scortecciato di fresco e ben piantato per terra.

Tutt’intorno un gruppo di contadini, il capoccia e la massaia all’opera per creare una solida base per il pagliaio. Il mucchio di paglia inizia ad alzarsi attorno al palo e, quando giunge a qualche metro da terra, un garzone la inforca e la porge al capoccia che a sua volta la distribuisce torno torno. I giovani che trasportano la paglia dalla battitrice raddoppiano l’impegno, quasi corrono mentre incitano altri a rastrellare la pula verso un capanno. Sudore e fatica, ma non sembra, perché il garzone, mentre porge la paglia, intona uno stornello o si rivolge alla massaia ancor florida con motti e frasi allusive. L’atmosfera si fa quasi allegra. Intanto, il pagliaio cresce e occorre una scala. Vi sale un giovane. Le forconate passano ora da uno all’altro, con gesti rapidi e decisi. Canti, grida, risate, motti scherzosi accompagnano la fatica. Ad un tratto, grida d’allarme risuonano miste a risate: il pagliaio pencola! Subito il capoccia interviene e, con quattro colpi di forcale e qualche imprecazione, lo raddrizza. Finalmente l’opera si compie.

Abilità, pazienza, fatica e dieci o dodici uomini occorrono per costruire un semplice pagliaio è il commento finale di Paolo Toschi.
Dolore di madre
Le osservazioni di Toschi esplorano anche momenti difficili di vita.
Sul poggio di Valdistori si trebbia. Ad un tratto, una scintilla dà fuoco al grano della trebbiatrice. Immediatamente, Beppe della Clelia, imboccatore, si getta per spegnere l’incendio: un attimo, un grido, uno zampillo vivo di sangue, e un piede maciullato dalla macchina. Accorrono i soccorritori che improvvisano una barella con delle assi di fortuna. Vi adagiano il giovane sofferente e si avviano per condurlo alla fattoria. Qualcuno, intanto, ha avvisato dell’accaduto la madre, che subito si avvia giù per il sentiero sassoso, accompagnata da due o tre donne che la rincuorano e la sorreggono. Ecco che, ad una svolta, le appare il gruppo di uomini che trasportano il figlio sulla barella con le gambe avvolte in dei sacchi. Beppe ha solo 18 anni e Clelia vorrebbe gettarsi giù per la discesa verso di lui come a voler catturare tutto il dolore che gli sconvolge il volto. Le donne la trattengono. Alta, scarna, olivastra, con le ossute mani al volto, la madre attende. Ora la barella è vicina… gli uomini procedono ansimando, senza una sosta. Il figlio, che già di lontano ha scorto la madre, alza il volto emaciato, si ricompone, le sorride tristemente. È un ragazzo alto e il piede troncato, avvolto nei sacchi, zuppo di sangue, sporge dalla barella. Rapido, uno dei portatori lo ricopre con una giubba, perché non lo veda la madre. Clelia è ora vicina al figlio in un pianto dirotto. Il gruppo continua il cammino, ansioso di procedere. Clelia singhiozza. Allora il figlio punta il gomito sul coltrone, si erge un poco, fa per volgere indietro il volto; e chiama, in tono di dolce rimprovero:
–Mamma!
Il singhiozzo non s’ode più.
In poche righe e altrettanto brevi parole, è racchiusa tutta la forza di carattere e la dignità di queste semplici persone messe di fronte ad un momento doloroso.
Spirito paesano
Infine, un sano umorismo, una voglia di cose leggere, una sana arguzia danno vita a gustose scenette. Tutto questo in due quadretti di vita colti da Toschi. Pochi ricorderanno i personaggi dato che sono passati molti anni, però forse qualcuno avrà sentito parlare della Menca…
Un gruppo di giovani muratori è all’opera di restauro presso la canonica della chiesetta del posto. Arriva sul sagrato la Menca arrancando sulla mula sellata a basto. Per comodità, cavalca a uomo, con le sottane tirate al ginocchio, tanto da mostrare i polpacci sodi coperti da grosse calze di filo. Immediata la reazione dei giovani che hanno voglia di scherzare. Il più sfacciato, prima volge gli occhi al cielo come a voler guardare le nubi che si stanno diradando per dar luogo al sereno, poi, rivolgendosi a Menca con tono che allude alla comoda posizione della donna, esclama:
-O Menca, il tempo s’allarga!
E pronta di rimando la Menca, col bastone levato in gesto di minaccia:
-Bada che non ti toni sulla testa!
Altro personaggio, forse c’è chi lo ricorda. Siamo al Ranco, minuscolo borgo alla confluenza del Marecchia con il Presale. Luogo di un’antichissima fiera di bestiame a cui accorrevano dai paesi e dalle regioni vicine.

Don Fausto, parroco della chiesetta del luogo, si avvicina ad un gruppo di uomini, suoi parrocchiani, riuniti a parlare sul sagrato, come d’uso dopo la messa, ed esclama (Toschi per dare maggiore incisività e freschezza al dialogo, lo trascrive nella parlata locale):
-Felici voaltri, contadini – dice in un crocchio di parrocchiani Don Fausto del Ranco – che ci avete la vostra bella polendina, condita col su’ sughino bono e saporito che è una delizia. Noi invece, poveri pretàci, n’avemo che ‘na galinàcia cota int l’acquàcia, co’ un pugno di sale.
Ma Gisto, il primogenito del capoccia, gli chiede a bruciapelo:
-Volemo fa’ cambio?
-Quando andera’ tu in Maremma,
bel pecoraro
amor mio caro, -ahimè,
quando andera’ tu in Maremma?
Così dice una canzone amorosa che sanno i pastori lungo le cime dell’Appennino Tosco-Romagnolo1. Ed ecco, dopo la festa della Madonna, in settembre, incominciano le prime partenze verso la Maremma. Ma il vero esodo avviene nella seconda e terza decade di ottobre. In ogni podere del Badiale le prime a lasciare la montagna sono le greggi… Ogni pastore distingue a colpo d’occhio ogni pecora del suo branco e ne conosce persino il carattere.

Quando in Maremma, nel chiuso dove riposano le bestie, troveranno gli agnellini appena nati, sapranno accoppiarli alle loro madri. Le mandrie del bestiame grosso partono più tardi quando il giallo-ruggine ha tinto le cime dei faggi, ha invaso i felceti e le macchie e… già il tramontano rivultica nell’aria le prime falure di neve. Ogni bestia ha un suo nome. Ecco le vaccine: Marchigiana, Capriola, Corallina, Rondinella, Ciuffetta, Biancuccia, Gentilina… Al solo nominarle sembra di averle davanti agli occhi! Poi i nomi dei manzi e dei tori: Balestrino, Fuciletto, Cavaliere, Valoroso, Principino, Garibaldi… Prima di partire, immancabili le ultime raccomandazioni delle donne che sapevano celare l’ansia perché i loro uomini partissero sereni:
– O Fiore, guardatevi dalle febbri!
– Mantieni forte, Giovanni!… e mettevano nelle loro sacche un bel pezzo di lardo o una camiciola di lana filata e tessuta con le proprie mani.
Da secoli e secoli, uomini e greggi, al venir dell’autunno, lasciano i pascoli e i boschi dell’Appennino Toscano per scendere a svernare nelle maremme. Il percorso è di circa otto giorni per le pecore; le mandrie ne impiegano sei al massimo. Lungo un tradizionale cammino attraverso la campagna aretina, senese e grossetana, si fermano in varie tappe. I pastori cercano le scorciatoie e seguono margini e sentieri ben noti, se non veri e propri tratturi. Vengono ospitati per il riposo dai contadini a cui lasciano poi un po’ di formaggio appena fatto. Il contadino è contento, anche perché la permanenza notturna del gregge ha concimato il suo terreno. Così ogni anno, da secoli e secoli … e la gente che vive nelle città, quasi non se ne accorge … Tutta la Toscana traversano i pastori … ma non si attardano: hanno ansia di giungere, e felice colui che tra le macchie di albatrelle, vede per primo il luccichìo del mare.

Se i pastori raggiungevano le terre maremmane per avere pascoli più freschi e abbondanti, impossibili da trovare sui monti nel periodo invernale, un altro esodo si è verificato per lunghi anni dall’Appennino: quello di centinaia e centinaia d braccianti assunti come manodopera per i lavori di disboscamento delle intricate selve maremmane. Un’indispensabile forza-lavoro in affiancamento alle opere di bonifica che dall’800 iniziarono ad essere più continuative e mirate. Pastori e braccianti, che con l’arrivo dell’autunno hanno dovuto lasciare i loro pascoli, i loro boschi, le loro case, le loro famiglie per scendere in una terra malsana. Uno stesso esodo sia pure in tempi e luoghi un po’ diversi. Una stessa terra da raggiungere. Una stessa aria da respirare lontani dalle proprie famiglie. E sui monti la solitudine delle loro donne rimaste quasi sempre a custodire la casa, i figli, i vecchi genitori.
…amor mio caro, -ahimè,
quando andera’ tu in Maremma?
Sono versi accorati. Quell’ahimè racchiude in sé tutta l’infinita ansia di chi –madre–moglie-sorella- fidanzata- vedeva partire la persona amata per luoghi lontani e pericolosi , sapendo che, solo a primavera inoltrata, sarebbero tornati, ammesso che tornassero.
E ancora un noto e struggente canto popolare dove si avverte ancora più l’ansiosa sofferenza per il distacco:
Tutto mi trema il cor quando ci vai
Per lo timor se ci vedrem più mai.
La Maremma per secoli ha significato zanzare, corvi, acquitrini, pianure miasmatiche, tristi, febbricose, stendentisi a perdita d’occhio sotto un tragico cielo. Nell’immaginario collettivo, dunque, una terra selvaggia e insalubre. I registri parrocchiali delle varie frazioni, anche del Badiale, riportano infatti storie di giovani vite stroncate dalla malaria. Il territorio florido in epoca etrusca e romana, nell’Alto Medioevo entrò in uno stato di desolazione, di degrado e nel più completo disordine idrogeologico. I fiumi, non più controllati dall’opera dell’uomo, finirono per ristagnare conseguentemente all’innalzamento dei tomboli (cordoni sabbiosi litoranei). Le acque, impossibilitate a defluire in mare, si accumularono divenendo putridi acquitrini, paludi pestifere e maleodoranti, regni incontrastati della zanzara anofele. Cambiò il clima, la fauna e la vegetazione. La Maremma divenne un luogo inospitale e malarico. Invivibile.
Il ritorno dei pastori e dei braccianti avveniva a primavera inoltrata quando in montagna le distese dei prati e le chiome dei lecci dei faggi dei pini degli abeti riprendono a sfoggiare la meravigliosa gamma dei loro verdi.

Un esodo e un ritorno periodici nei quali Toschi ravvisa il ritmo calmo e solenne delle cose eterne…. Un senso sereno e forte che si riflette nell’anima di questa gente … un’istintiva obbedienza alle leggi della Natura, la sintonia perfetta con le forze del creato …
Ancora Toschi:
Domandai un giorno a Giovacchino, il vergaio della Valentina:
-Come fate voi quaggiù a mantenervi così sani e svelti?
-Eh … con la vita all’aperto … e con l’acquacotta. L’ha mai assaggiata l’acquacotta? È il nostro mangiare di ogni giorno. Si prende una grande padella e la si fa mezza d’olio, tritandovi della mentuccia e gettandovi un pugnello di sale. Messa al fuoco, vi s’aggiunge acqua e pane a fette. Chi vuole farla più buona può mettervi anche fagioli, d’ogni sorta erbe, zenzero. È cibo di poveri, ma sano; e forse piacerebbe anche a lei. Dice la canzone scherzosa:
Mi manca la mentuccia l’olio e il sale
Fare’ l’acqua cotta se ci avessi il pane!
A Toschi, dopo averla assaggiata, era piaciuta tanto da proporla al suo amico scrittore Alfredo Panzini, da lui invitato a Viamaggio. Ma il Panzini non deve averla gradita, perché annotò sul suo taccuino di viaggio: “Richiede forte appetito”.
Alla metà degli anni ’50 del secolo scorso, quando Toschi scrive della Maremma, non rimane niente del dissesto e della desolazione del passato. La bonifica integrale dell’Ente Maremma ha completamente trasformato il territorio sotto l’aspetto sanitario, idraulico e agricolo. Così, a Toschi. appare tutta un’ondulazione di poggi soffusi dal grigio perlato degli ulivi o compatti nel verde orgoglioso dei forteti … colli appoderati di recente … dominati sulla cima da una casa rosso-rosa.. In mezzo, diritta, la grande strada che conduce a Roma, e parallela ad essa, la ferrovia … protesa verso l’orizzonte ove … traluce una lastra di mare. E poi, tutta una geometria di canali, di pagliai, di linee di cancelli e di staccionate che accolgono i cavalli. Le pianure sono pervase da un senso di serenità.
-Come diversa dalla Maremma di maniera, quale abbiamo visto nei quadri di cavalletto e nelle novelle paesane, – esclama Toschi mentre ammira il forteto, fitta e selvaggia boscaglia, una selva profumata di mille aromi erbosi, che resiste soprattutto in prossimità di alcune coste. È la festa di un solo colore, il verde, ma in cento diverse vibrazioni cromatiche. Ecco il verde cupo del sontro e del lillitro, il verde verniciato del saracchio dalle lunghe foglie taglienti.

Seguono tanti nomi di piante, alcuni desueti o locali come lo spaccasasso dal verde cinerino, del cerro-sughero e del leccio-sughero dal verde allumacato; delle siepi selvagge del rosmarino: della sabina dal verde spento. Ma la gloria del forteto è il corbezzolo, che i maremmani chiamano àlbatro: fiori bianchi, bacche rosse, foglie verdi … e tutt’intorno la salvia profumata, la mortella, l’erica, la viburnia, lo stracciabrache con le piccole foglie a cuori e le pungenti spine marruche. Un’intricatissima vegetazione che avvolge e incanta lo studioso. Le poderose opere di bonifica ingegneristiche e idarauliche con la manodopera dei braccianti, avevano letteralmente rinnovato e rivoluzionato la Maremma, che era diventata una meravigliosa terra da vivere.
1 – Tutti i brani in corsivo sono tratti da: Paolo Toschi, Poesia e vita di popolo, ed. Montuoro, 1946.
NOTE | |
Forteto | macchia mediterranea |
Sontro | lentisco. Ha frutti rossi ricchi di olio |
Lillitro | lillatro. Piccola pianta sempreverde, tipica della macchia mediterranea, con fiori pallidi e leggero profumo |
Saracchio | pianta erbacea perenne con fitti ciuffi di foglie che partono dal suolo |
Spaccasasso | albero plurisecolare con rami di notevoli dimensioni e frutti dal sapore dolciastro |
Sabina | ginepro, detto anche Ginepro dei maghi. Arbusto con forte odore di resina |
Viburnia | arbusto sempreverde con fiori bianco-panna e bacche rosse e nere |
Mortella | mirto |
Stracciabrache | pianta rampicante con acutissime spine, foglie a forma di cuore, fiori profumatissimi e bacche rosse a grappolo, nutrimento per molte specie di uccelli |
Marruca | arbusto perenne con rami spinosi. Ha piccoli fiori gialli. È detta anche spina di Cristo, forse perché usata per la corona di spine posta sulla testa di Gesù |
Marta Bonaccini